Il 5 ottobre scorso abbiamo avuto il privilegio di avere con noi, ad aprire i lavori del consiglio diocesano, don Michele Pace. Giunto al termine dell’incarico di assistente nazionale del Movimento Studenti di AC e del Movimento di impegno educativo di AC, prima di ripartire per la sua diocesi di Andria, gli abbiamo chiesto di accompagnarci con una meditazione che tenesse insieme la riflessione sulla vocazione nella vita cristiana e la spiritualità di Carlo Carretto, dato che proprio da don Michele è stato priore di Casa San Girolamo a Spello, dove Carretto visse gli ultimi suoi anni e dove è sepolto.
Don Michele ci ha lasciato un grande regalo: una lettera scritta “à la” Carretto, con il suo sguardo, la sua esperienza, la sua profondità, per aiutare a discernere i segni di questi nostri tempi.
Ve la proponiamo nella sua interezza, certi che possa essere uno stimolo importante per il cammino dell’anno….
Cari amici,
stasera voglio parlarvi del deserto… questo luogo è così angusto e insieme così affascinante, così silenzioso, ma anche così pieno di voci, da suscitare in me dolci memorie e pensieri di futuro. Vi sembrerà strano che nel bel mezzo di un Consiglio Diocesano di Azione Cattolica, luogo e momento di dialogo in vista di una progettazione di un’azione missionaria, vi parli proprio di questo luogo, ma ritengo che sia utile per me, per voi, per tutti ritornare ogni tanto al deserto, perché questo luogo di non-vita, ci aiuti a vivere.
Arrivai alla scelta del deserto leggendo un libro di Renè Voillaume, fondatore nel 1933 di una Congregazione che si ispirava all’eremita missionario Charles De Foucauld; tale libro dal titolo Come loro mi scosse profondamente, tanto da dire a me stesso “parto per il deserto”. Fu il Cardinal Montini a scrivere una lettera al padre Voillaume in cui mi presentò con parole cariche di profondo affetto: “è una persona di grande sincerità – scrisse -, di ardente vita spirituale di molta generosità, un uomo veramente innamorato di Dio e della sua Chiesa”. Capite, il Cardinal Montini che scrive di me questo… c’è da sentirsi piccoli piccoli! Così l’8 dicembre 1954, partii per il deserto e il giorno di Natale di quello stesso anno ricevetti, nella cappella del noviziato della fraternità di El-Abiodth, in Algeria, l’abito bianco che significava la mia entrata ufficiale nel noviziato dei piccoli Fratelli di Gesù.
La prima scoperta che feci nel deserto fu quella della povertà: la povertà materiale, ma soprattutto la povertà spirituale. Uno dei primi ordini, infatti, che ricevetti da parte del maestro dei novizi fu quello di disfarmi della mia agenda, nella quale erano annotati tutti gli indirizzi della Roma che contava. Questo fu il primo dono del deserto: la povertà. Una povertà intesa come spogliazione del cuore, liberare il cuore da ciò che lo rende schiavo, da ciò che occupa quello spazio destinato a Dio e a Lui solo. Guardate, non vi sembri una cosa banale, tutt’altro; è una operazione che tutti dovremmo avere il coraggio di fare nella nostra vita, perché tutti quanti noi abbiamo quei piccoli grandi attaccamenti che ci impediscono di far spazio a Dio nella nostra vita… persino l’impegno in associazione può esserlo, se diventa il fine della nostra vita e non il mezzo attraverso cui servire Dio nei fratelli che Lui ci ha messo accanto. È proprio quello che era successo a me durante gli anni meravigliosi spesi a servizio della GIAC. Di certo furono anni di grandi sogni e di lotte appassionate, anni in cui mi sembrava di avere il mondo in mano, di poter rivoluzionare la Chiesa e il Paese. Soprattutto quando cavalcando l’idea di una Chiesa battagliera e trionfalistica, organizzai il raduno dei famosi “baschi verdi”, che coinvolse trecentomila persone. Non vi nascondo che in quel momento ebbi anche la tentazione di entrare in politica.
Il silenzio del deserto mi aiutò ad accorgermi che quel servizio che Dio mi aveva chiesto di svolgere in Azione Cattolica era diventato più un modo per compiacere me stesso che per servire Lui e i fratelli. Cari amici, prendetevi del tempo per entrare nel vostro cuore, e domandatevi: perché sto svolgendo questo servizio? Quali sono le motivazioni più profonde che mi spingono a mettermi a servizio dei fratelli? Questo significa praticamente prendersi cura della propria vita interiore e, in un’ottica educante, accompagnare i ragazzi e i giovani a prendersi cura di questa dimensione fondamentale della persona. I ragazzi e i giovani sono così carichi di entusiasmo, di forza, di idee, ma hanno anche tanto bisogno che qualcuno li aiuti a riscoprire la bellezza della cura della propria vita interiore, di mettere ordine nella cantina del proprio cuore dove Dio abita e parla. Non bisogna rinunciare mai a questo compito, anche quando le nostre forze sono esigue, i numeri possono calare gettandoci nello sconforto, l’azione pastorale della Chiesa suggerisce tutt’altre vie. Anche perché, le suddette domande, coinvolgono tutti gli ambiti della nostra vita: il lavoro, lo studio, le relazioni, l’impegno per la città, persino le scelte definitive della nostra vita.
A proposito di scelte definitive, di quella cioè che noi, in un’ottica credente chiamiamo “vocazione”, devo dirvi che, se il deserto mi aiutò a dare un volto alla mia vocazione, nello stesso tempo mi aiutò a capire che gli appelli che il Signore ci fa e ai quali dobbiamo cercare di porre ascolto sono quotidiani. Come ebbi a scrivere in Lettere dal deserto: “La chiamata di Dio è cosa misteriosa, perché avviene nel buio della fede. In più essa ha una voce sì tenue e sì discreta, che impegna tutto il silenzio interiore per essere captata. Eppure nulla è così decisivo e sconvolgente per un uomo sulla terra, nulla più sicuro e più forte. Tale chiamata è continua: Dio chiama sempre! Ma ci sono dei momenti caratteristici di questo appello divino, momenti che noi segniamo sul nostro taccuino e che non dimentichiamo più”. Sì è vero, ci sono momenti in cui il Signore si presenta in maniera chiara nella nostra vita per farci capire quella che è la strada che ha pensato per ciascuno di noi, ma questa strada si specifica, assume contorni più definiti grazie a queste chiamate quotidiane che egli stesso ci fa! Questa consapevolezza richiede da ciascuno di noi un approccio diverso a questa dinamica dello Spirito e un accompagnamento diverso nei confronti di ragazzi e giovani che sono chiamati a fare discernimento sul versante vocazionale.
Anzitutto richiede l’attenzione a coltivare quel silenzio interiore che ci aiuta a cogliere quella voce “sì tenue e sì discreta” che si rivolge a ciascuno in maniera personale e inedita. Spazi di silenzio che, come mi ha insegnato l’esperienza di Spello, non possono coincidere con tempi e momenti straordinari, ma devono sposarsi con una quotidianità fatta di mille impegni, incontri, voci, corse, che spesso fanno impazzire i nostri orologi. Non si tratta di uscire dalla vita, ma, in un’ottica prettamente laicale, trovare nella vita i segni della presenza di Dio. Fare del nostro lavoro, della nostra famiglia, delle amicizie, della nostra associazione, della nostra parrocchia, del nostro vicinato, della nostra città, il nostro monastero. Aiutare ragazzi e giovani ad innamorarsi della propria vita, della propria quotidianità, dei propri impegni, come luogo della presenza di Dio è sfida ardua…ma anche molto molto affascinante. Creare un ponte tra la fede e la vita oggi è quanto mai essenziale. Questo è possibile se e solo se anche noi siamo innamorati della vita, se dai nostri volti partono raggi di luce, piuttosto che folate di triste fuliggine.
Ma un approccio alla dinamica vocazionale come questo, richiede anche un pensare alle scelte definitive non come pacchetti preconfezionati da proporre in un catalogo già compilato; ma come percorsi aperti alla novità dello Spirito che con i suoi appelli li specifica, rendendoli unici, irripetibili. Dobbiamo certo continuare a raccontare a ragazzi e giovani la bellezza di realtà come la famiglia, la vita consacrata, la scelta sacerdotale, la scelta della “missione ad gentes” ecc., ma anche far capire loro che tali realtà sono abiti che il Signore cuce addosso a ciascuno secondo la propria misura e con una creatività propria dei grandi stilisti. Troppo spesso invece abbiamo presentato queste scelte come prodotti da prendere dallo scaffale di un supermercato, controllando che ci fossero tutti gli ingredienti perché tale prodotto fosse ben riuscito. Insistendo su questa linea non ci siamo resi conto che se da un lato abbiamo tarpato le ali allo Spirito, dall’altro abbiamo posto pesi addosso alle persone che non erano capaci di portare, rimarcando col tratto del giudizio un dipinto che era buono solo per il nostro salotto.
Tra l’altro il Signore ha voluto che ben tre volte cambiassi direzione nella mia vita, come scrissi ancora in Lettere dal deserto: “Tre volte nella mia vita intesi questa chiamata. La prima determinò la mia conversione a 18 anni […]. La seconda volta fu a 23 anni. Pensavo a sposarmi; e nemmeno sapevo che poteva esistere qualche altra via per me […]. Passarono molti anni; e molte volte mi sorpresi in preghiera a domandare di risentire suono di quella voce che tanta importanza aveva avuto per me. Fu a 44 anni che ciò avvenne; e fu la chiamata più seria della mia vita: la chiamata alla vita contemplativa. Essa si determinò nel più profondo della fede, laddove il buio e più assoluto e le forze umane non aiutano più”.
Cari amici, la cosa più strana che mi sono trovato a riconoscere è che proprio la chiamata più grande che il Signore mia ha rivolto si è svolta nel momento in cui avvertivo il silenzio di Dio, il buio della fede. Sicuramente a tanti di voi sarà capitato di vivere in determinati momenti della propria vita questo tipo di situazione, di sperimentare quanto sia un momento di forte prova per la fede, ma che poi ci ha aperto dei panorami stupendi. Dovremmo saperli raccontare di più questi momenti, saper accompagnare soprattutto i giovani a vivere i momenti di crisi (intesa nel senso più vero di “scelta che si attua nel discernimento”), ma farlo senza giudizio e senza impazienze; saper dire loro che si tratta di momenti fecondi in cui porre le basi per la loro personale relazione con Dio e cogliere i segni della Sua chiamata per ciascuno di loro. Spesso accade che in momenti come questi in cui i ragazzi e i giovani sentono il bisogno di prendere le distanze da Dio e dalla comunità cristiana noi li abbandoniamo a sé stessi, li dimentichiamo, li giudichiamo perduti…tutti strategie, pastoralmente giustificate, per non mandarli a cercare o per lo meno aspettarli sulla soglia di casa. Eppure, come diceva bene Enzo Bianchi all’ultima Assemblea Nazionale, oggi la sfida per l’Azione Cattolica è quella di stare sulla soglia, per accompagnare proprio coloro che stanno sulla soglia della comunità cristiana con le fatiche, i dubbi, le sofferenze…sapendo che sono le nostre stesse fatiche, dubbi, sofferenze.
Carissimi, perdonatemi se mi dilungo ancora un attimo su questi discorsi, ma forse stavo dimenticando l’essenziale. Il deserto, infatti, mi ha fatto capire fino in fondo che la chiamata non è cosa nostra, ma di Dio: è Lui che sceglie e che chiama, noi siamo chiamati semplicemente a investire o meno la nostra libertà su quella chiamata. Questo per me è stato di grande importanza per capire che la vocazione non è primariamente per la realizzazione dei nostri sogni, dei nostri progetti, lasciando così Dio da parte o utilizzandolo come una sorta di firmatario di disegni realizzati da noi. Al contrario lui sa quello che è bene per noi e quello che realizza il fine ultimo della nostra vita, ovvero l’unione con lui. Lo scrive bene Sant’Ignazio quando all’inizio dei suoi Esercizi Spirituali parla del Principio e fondamento in questi termini: “L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo sono create per l’uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui è creato. Da questo segue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano per il suo fine, e deve allontanarsene tanto quanto gli sono di ostacolo. Perciò è necessario renderci indifferenti verso tutte le realtà create (in tutto quello che è lasciato alla scelta del nostro libero arbitrio e non gli è proibito), in modo che non desideriamo da parte nostra la salute piuttosto che la malattia, la ricchezza piuttosto che la povertà, l’onore piuttosto che il disonore, una vita lunga piuttosto che una vita breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo soltanto quello che ci può condurre meglio al fine per cui siamo creati”. Sebbene Ignazio inserisca queste indicazioni all’interno della prima tappa, quella che riguarda la revisione di vita, tuttavia esse disegnano quello che deve essere il fine ultimo della nostra vita e i mezzi per raggiungerlo…la nostra vocazione, la nostra scelta definitiva, deve essere finalizzata a questo. Può capitare di non capire perché Dio ci chieda una cosa piuttosto che un’altra, che ci chieda di mettere da parte un nostro progetto che a noi sembrava la cosa migliore nella nostra vita, ma siamo sue figli e il suo amore ci apre non può che scegliere ciò che è bene per noi.
Allora lasciatemi concludere con una esclamazione con cui ho suggellato la scoperta dell’amore di Dio nella mia vita e di quanto questo abbia compiuto miracoli: “Io sono stato sempre sorpreso dalla vita. E siccome credo che Dio sia Vita, com’è Luce e così com’è Amore, penso davvero che sia stato proprio Lui a “sorprendermi” nel mio cammino. Dio è sorpresa. Dio è novità. Dio è creatività“.
Con affetto.
Fratel Carlo